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  • Francesco Caracciolo ha ricevuto il Premio alla cultura nel 1985 e nel 1994, conferito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri

  • Ha ottenuto finanziamenti per la ricerca scientifica dal Ministero della Pubblica Istruzione e contributi dal Consiglio Nazionale delle Ricerche

  • È stato Forschungsstipendiat dell'Alexander von Humboldt Stiftung

  • Lo ius soli ovvero il diritto di chi nasce in Italia di essere cittadino italiano anche se figlio di genitori non italiani.

    di Francesco Caracciolo

     

    Il principio dello ius soli è applicato nei Paesi poco popolati e con grandi spazi vuoti ed estese terre incolte. Fino ai primi decenni del Novecento gli Stati del Continente americano compresi gli Stati Uniti furono Paesi poco popolati con immensi territori da coltivare. Importarono la manodopera necessaria e il capitale ricorse anche alle tratte di neri per avere più immigrati possibili da impiegare nelle piantagioni di caffè, di tabacco, di cotone. Il capitale e i capitalisti si impinguarono; la produzione e l’economia aumentarono notevolmente. Così quei Paesi crebbero e si arricchirono, ma si popolarono di gente di ogni razza e colore, soprattutto di neri strappati anche con la forza dalle loro sedi e dai loro villaggi.

    La crescita e la ricchezza che ottennero in tal modo ebbe un prezzo, un prezzo molto alto che oggi quei Paesi pagano e forse pagheranno ancor più nel futuro. Quella crescita e quella ricchezza crearono sovrappopolamento, promiscuità, conflittualità, incomprensione ed enorme disagio ed estrema povertà di genti ammassate specialmente nelle periferie di gigantesche città. Produssero sconvolgimento sociale evidente nelle megalopoli in cui, come avviene nelle grandi città del Brasile o del Venezuela, Rio o Caracas, è pressoché impossibile garantire la pubblica sicurezza; in cui la polizia spesso giustizia i delinquenti direttamente sul posto e in strada.

    I Paesi in cui si è verificato tutto questo sono corsi ai ripari. Tutti si sono difesi chiudendo ermeticamente ogni accesso all’immigrazione.

    Oggi, dopo qualche secolo da quando tutto questo è iniziato altrove, in Italia si parla della possibilità, anzi dell’utilità di applicare lo ius soli e di garantire agli immigrati vecchi e nuovi accoglienza e convivenza con gli autoctoni. La ministra nera, Kyenge, e la detentrice della terza carica dello Stato italiano, Boldrini, e i loro sostenitori, camerati e compagni di partiti e partitini propongono questa applicazione e questa garanzia e le difendono con notevole determinazione.

    Cerchiamo di vedere e di prevedere quali effetti potrebbero avere in Italia (e non solo in Italia) l’applicazione dello ius soli, pieno o temperato che sia, e l’accoglienza e la convivenza tanto auspicate.

    L’Italia di oggi non è né il Brasile, né gli Stati Uniti, né altri Stati del Continente americano di 150 o di 200 anni fa. Non ha grandi spazi, né estese terre incolte da coltivare. Al contrario, ha un angusto territorio sovrappopolato da lunga data, in molta parte e sempre più coperto dal cemento, montuoso e con aree sempre più ridotte destinate all’agricoltura.

    Ad attirare immigrati e a spingerli verso l’Italia e l’Occidente è il miraggio del benessere.

    Ad auspicare l’accoglienza a tutti i costi degli immigrati sono la carità e l’universalismo cristiano di preti e prelati nonché il buonismo e il lassismo di quanti continuano a restare legati ad obsolete ideologie.

    A teorizzare l’utilità della convivenza degli immigrati con gli autoctoni sono gli stessi immigrati, a cominciare dalla ministra Kyenge, e molti componenti di partiti e partitini, come la Boldrini, che vedono, tra l’altro, nella moltiplicazione della presenza degli immigrati un ricco e crescente serbatoio di voti.

    A volere la presenza e la permanenza degli immigrati sono, oltre i suddetti, molti speculatori senza scrupoli e imprenditori spinti dal bisogno e dalla convenienza di assicurarsi manodopera a basso costo mediante l’apporto di parte di quegli immigrati.

    In realtà, in Italia l’afflusso di immigrati è continuo. E oggi si verifica che, mentre una parte degli immigrati trova lavoro, una parte della popolazione autoctona è disoccupata. Sono milioni gli immigrati occupati in Italia e milioni sono gli italiani autoctoni disoccupati.

    È facile comprendere dove porti un processo del genere, a quale sconvolgimento sociale possa condurre, se non sarà interrotto. Ma per poterlo interrompere c’è da battere una sola via: occorre fermare l’afflusso di immigrati, limitare al minimo la loro presenza e occupare i disoccupati autoctoni, effettivi o fittizi che siano.

    Per sostituire il contributo degli immigrati che lavorano, che secondo alcuni come la ministra Kyenge sono un’insostituibile risorsa, un fattore di crescita economica del Paese, basterebbe indurre i disoccupati autoctoni a tornare a lavorare, ad accettare e fare qualsiasi lavoro, pesante e sgradito che sia. Si dovrebbe far rinascere in molti la diligenza, l’amore al mestiere e alla professione. Bisognerebbe che molti tornassero ad ambire ad essere artisti e artigiani creatori. Si dovrebbero indurre molti a spogliarsi di deleterie abitudini e di costumi che hanno acquisiti e moderare il tenore di vita insostenibile, molto più alto delle loro possibilità e delle loro capacità produttive.

    Per ottenere tutto ciò bisognerebbe creare certe condizioni che inducano milioni di autoctoni, disoccupati più o meno effettivi, a comportarsi come i loro avi, ad accettare il lavoro come cosa preziosa e a svolgerlo con impegno e dedizione e con professionalità; a considerarlo il giusto corrispettivo del compenso che ricevono e il solo mezzo per assicurare prosperità e benessere al Paese.

    Se ciò fosse possibile aumenterebbe la produttività e si salverebbero l’identità e la coesione sociale.

    Ma è molto difficile creare e rendere efficaci certe necessarie condizioni: si dovrebbero ridimensionare costumi e abitudini di vita facendo sentire a molta gente distratta e disabituata a ogni serio impegno il crescente morso dell’appetito, della fame da poter estinguere solo con il reddito di un proficuo lavoro. Ma una misura del genere, drastica e dolorosa e forse la sola efficace, costerebbe la perdita di consensi elettorali a coloro che ne fossero promotori, partiti e partitini.

    Con il ricorso a una misura del genere si potrebbe salvare il salvabile: si potrebbe fare risalire al Paese la china su cui si è messo. Si farebbe l’esatto contrario di ciò che propongono, predicano e teorizzano immigrati, ministri, onorevoli, politicanti e prelati. E costoro sostengono che bisogna legalizzare la presenza degli immigrati e la nascita dei loro figli e garantire l’accoglienza di altri e la loro convivenza. Ad avviso di taluni politicanti, onorevoli, partiti e partitini bisognerebbe fare esattamente ciò che in qualche decennio stravolgerà del tutto l’esistente.

    Continuando a incoraggiare e a incrementare l’immigrazione con le loro tesi e con le loro proposte di applicare lo ius soli  e di garantire accoglienza e convivenza, la Penisola italiana in qualche decennio sarà un guazzabuglio di razze, di gruppi e di individui che non si intenderanno fra loro anche se impareranno a parlare la stessa lingua e a osservare provvisoriamente le leggi esistenti. In realtà comporranno una popolazione ibrida e molto più conflittuale e caotica di quanto è già ed è sempre stata dal suo lontano passato.

    No, ci auguriamo che tutto questo non avvenga. Non speriamo che la Kyenge e la Boldrini e i loro sostenitori e camerati condividano quanto abbiamo detto, intenti come sono ad avanzare le loro proposte e a sostenere le loro teorie progressiste che rendono alte cariche in un Paese colabrodo. Ma ci auguriamo che la Kyenge e la Boldrini e i loro sostenitori non prevalgano e che le loro tesi non abbiano seguito.

    Roma 26/07/2012

    Francesco Caracciolo

    Per avere esaurienti ragguagli sull'argomento si suggerisce quanto segue:

    - Francesco Caracciolo, L'integrazione dell'«arcipelago migratorio» in Occidente, pp. 168;

    - Francesco Caracciolo, Come muore una civiltà e come sta morendo la nostra, pp. 408;

    - Francesco Caracciolo, Mali estremi, pp. 176;

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