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  • Francesco Caracciolo ha ricevuto il Premio alla cultura nel 1985 e nel 1994, conferito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri

  • Ha ottenuto finanziamenti per la ricerca scientifica dal Ministero della Pubblica Istruzione e contributi dal Consiglio Nazionale delle Ricerche

  • È stato Forschungsstipendiat dell'Alexander von Humboldt Stiftung

  • La permanente conflittualita' in Italia.
    Il morbo, atavico, organizzato, importato

    di Francesco Caracciolo

     

    Il governo italiano (e non solo il governo) offre tra il 2018 e il 2019 uno spettacolo che non si è mai visto in nessun altro governo di nessun altro Paese del mondo. I contrasti, i continui litigi, le reciproche pesanti accuse, il persistente e crescente conflitto fra i suoi componenti rendono necessario cercarne le cause. Inducono a condurre un esame tendendo lo sguardo fino al lontano passato. Si può così giungere a individuare l’indole e il carattere degli abitanti della Penisola e delle Isole italiche immutati nei secoli.

    Com’è specificato nel titolo, il morbo è uno e trino.

    Il primo morbo ha origine nel lontano passato. Nel 202 avanti Cristo la battaglia di Zama poneva fine alla seconda guerra punica. La vittoria riportata dai romani fu il principale e decisivo successo militare dopo il disastro di Canne. Le conquiste che seguirono accrebbero i traffici nel Mediterraneo e resero possibile un notevole aumento dell’afflusso di grano dalla Sardegna, dalla Sicilia, dall’Africa e dalla Spagna a basso prezzo, minore di quello del grano che si produceva in Italia. Ne furono danneggiati la produzione e i piccoli e medi produttori di grano della Penisola. Se ne avvantaggiarono i grandi proprietari che resistettero alla concorrenza e accrebbero i loro latifondi acquistando le piccole e medie proprietà che molti coltivatori diretti non poterono più tenere. Molti di costoro furono rovinati, divennero nullatenenti e trovarono rifugio in città. I latifondi cresciuti a dismisura ne risentirono. Ebbero carenza di braccia. Vi sopperirono incrementando la pastorizia a danno dell’agricoltura. Ma questo rimedio non fu sufficiente, non colmò la carenza di manodopera: i latifondi restavano incolti o poco coltivati. Molti coltivatori erano divenuti cittadini nullatenenti, molti altri avevano lasciato non solo la campagna ma anche la Penisola nella veste di soldati, di amministratori o di mercanti. La carenza di manodopera andò crescendo non solo nell’agricoltura e vi si sopperì importandola. Da quegli anni della fine del terzo secolo avanti Cristo e ancor più dal 168, anno della battaglia di Pidna e della conquista definitiva della Grecia e di alcune province d’Oriente, il flusso di immigrati in Italia fu enorme e si protrasse per oltre duecentocinquant’anni. Dalla seconda metà del primo secolo dopo Cristo quel flusso si andò assottigliando.  Ma fino ad allora gli esseri umani che dai quattro punti cardinali giungevano in Italia furono milioni. In massima parte erano schiavi che provenivano dalle conquiste militari, in parte erano comprati a decine di migliaia in ogni parte del mondo divenuta provincia romana. Affluirono in Italia e colmarono il vuoto di manodopera non solo nelle campagne. Invasero il Paese sostituendo in moltissime attività l’elemento romano, latino e italico sempre meno presente. Al tempo di Giulio Cesare greci, siriani ed ebrei formavano insieme la maggioranza della popolazione di Roma. L’eterogenea presenza di tanti stranieri, che certo acquisirono una qualche integrazione formale, fu sconvolgente: minò le tradizioni, influì sui costumi e le abitudini e alterò i rapporti umani e sociali. Con la promiscuità e la conflittualità generò quanto di patologico si può rilevare nella società romana e italica dei secoli seguenti. Si può dire che il bisogno di maggiore produzione, la mancanza di sufficiente manodopera e la necessità di sopperirvi furono principali cause del progressivo deterioramento, dello sconvolgimento della società di Roma antica allora e nei secoli seguenti.* (cfr Francesco Caracciolo, L'integrazione dell'«arcipelago migratorio» in Occidente, pp. 168, pubblicato da "La Feltrinelli", pubblicato da "Il mio libro"; Francesco Caracciolo, Come muore una civiltà e come sta morendo la nostra, pp. 408, pubblicato da "La Feltrinelli", pubblicato da "Il mio libro")

    Il secondo morbo è meno remoto. Nel secolo sedicesimo una setta importata si diffonde con nomi diversi in alcune città del Sud d’Italia. Da allora accresce in misura esponenziale i patologici rapporti umani e sociali, le annose tare che la società italiana eredita dal lontano passato.** (cfr Francesco Caracciolo, Onorata società e società onorata, pp. 608, pubblicato da "Il mio libro")

    Il terzo morbo è recente. Si diffonde in Italia dagli anni Settanta del Novecento. È il risultato dell’immigrazione indiscriminata. Come quella che imperversò nell’antichità romana, essa affluì in Italia dopo avere invaso altri Paesi non solo europei, come la Francia, il Regno Unito e il Portogallo. *** (cfr Francesco Caracciolo, Mali estremi, pp. 176, pubblicato da "La Feltrinelli", pubblicato da "Il mio libro"; Francesco Caracciolo, La folle corsa, pp. 304, pubblicato da "La Feltrinelli", pubblicato da "Il mio libro")

    Il primo dei tre morbi ha dunque origine da obiettive esigenze economiche e sociali e da ingordigia di ricchezza e di potere che impongono il ricorso a risorse umane non autoctone per farvi fronte. Alla necessità di ricorrervi si aggiunge la convenienza che ebbe il capitale di trarre utili e profitto importando milioni di schiavi. Il loro disordinato afflusso e la loro promiscua ed eccessiva presenza creano nel Paese latente sconvolgimento ed endemica conflittualità. Dopo secoli, quando è da tempo radicata nel costume degli eterogenei abitanti del bel Paese, quella loro presenza diviene l’humus in cui nasce e cresce un altro morbo. Anch’esso si va assestando, cresce e si espande. Diviene endemico. È il risultato dell’azione della criminalità organizzata, di un flagello anch’esso d’importazione, anch’esso generatore di conflittualità. Quattro secoli dopo, nella seconda metà del Novecento, quando la società con in corpo i due morbi comincia ad avvertire i benefici del faticato benessere e in alcuni settori dell’opulenza, arriva da fuori il terzo morbo, che si aggiunge ai due già esistenti. Anch’esso cresce a dismisura, si diffonde e minaccia di affossare la società, aumentando sconvolgimento e conflittualità, e di annullare benessere e opulenza con l’apporto di un sovraccarico di popolazione e di corruzione. Come nel lontano passato, tanto malaugurato disastro è la conseguenza dell’afflusso continuo di innumerevoli individui dall’etnìa più diversa che dagli anni settanta del Novecento invade il Paese accrescendo promiscuità e conflittualità.

    Detto in questi termini e riassunto al massimo, quanto avvenne in oltre venti secoli può riuscire (e riesce, certo) incomprensibile. Si impone una spiegazione per fare chiarezza. E cerchiamo di darla.

    Nell’antichità il popolo latino, e poi quello romano, unì varie genti e popoli vicini e affini di costume, di modi di vivere e di credi religiosi. L’unione si espanse e divenne potente. Dalla città di Roma il dominio si estese alla Penisola italica e alle Isole. L’affinità delle diverse genti unite e confederate rese facile e conseguente la loro coesione e il loro amalgama. Tranne qualche defezione e qualche dissidio che si manifestarono nel tempo, l’unione delle genti italiche non generò inadattamento, insofferenza, disintegrazione e conflittualità. Al contrario tante genti si sentirono di un’unica appartenenza e con una sola identità.

    L’espansione romana continuò. Il dominio della città si estese a paesi e a popoli diversi e lontani. A differenza delle genti italiche, quei popoli avevano costumi, modi di vivere e fedi religiose diversi e lontani. Non erano popoli che potevano dirsi per molti aspetti affini tra loro e con il dominatore. La tolleranza dei Romani superò molte difficoltà nascenti dalla diversità di quei popoli conquistati. Il potere romano unì tanti popoli diversi e li ridusse sotto le stesse leggi e a comunicare nella stessa lingua. Ma i costumi, il modo di vivere, il senso di appartenenza e il credo religioso di quei popoli lontani e diversi restarono pressoché immutati.

    Intanto per potere diffondere il proprio dominio e il proprio potere, Roma e l’Italia si andarono spogliando di molti dei loro propri cittadini. In gran numero costoro furono inviati nelle lontane province a fare i soldati, i funzionari, gli amministratori. Anche per questo, il Paese si andò sempre più spopolando. Crebbe la carenza di braccia e con essa la necessità di colmarla. I detentori del potere e della ricchezza se ne avvidero, ne avvertirono il danno e corsero ai ripari. Provvidero a non lasciare sguarniti i loro latifondi e le loro ricche dimore. Ricorsero all’importazione di braccia. Per alimentare la loro propria ricchezza, in parte coincidente con quella pubblica dell’intero Paese, colmarono la lacuna, sopperirono alla carenza, alla quasi mancanza di manodopera e di gestori e amministratori autoctoni. Importarono innumerevoli individui che nel tempo divennero milioni. In massima parte erano schiavi provenienti dai quattro punti cardinali, dalle parti più diverse e lontane dell’impero.

    Nel primo secolo avanti Cristo, negli ultimi anni della repubblica, Roma pullulava di milioni di esseri umani provenienti da ogni parte del mondo. Masse di schiavi vivevano nei palazzi appartenenti alle grandi famiglie e ai nuovi ricchi. Enorme era il numero dei liberti, dei mercanti e degli artigiani di estrazione straniera. Era tutta gente originaria e oriunda dei quattro punti cardinali. Schiavi frigi, siri, elleni si mischiavano con libi e mauritani, geti ed iberi, celti e germani e affluivano sempre più numerosi dalle tre parti del mondo conosciuto. Come gli schiavi in città, spesso colti o semicolti, gremivano le case dei ricchi, altre masse di schiavi affollavano le campagne, impiegate nei latifondi a lavorare i campi in catene. Altra grande parte della popolazione della Capitale era composta di masse di individui non più schiavi. Erano genti emancipate di diritto o, molto spesso, solo di fatto, in parte poveri e poverissimi, non pochi ricchi e ricchissimi. Non erano più schiavi, ma neppure erano completamente cittadini. Dipendevano da un padrone. Esercitavano il piccolo commercio e formavano il gran numero degli artigiani. Erano liberti che affollavano il foro, influivano sull’esito delle elezioni dei magistrati, prendevano parte ad ogni manifestazione e non mancavano nelle prime file nei frequenti tumulti di piazza. Liberti e schiavi, greci, giudei e di ogni altra provenienza presenziavano in gran numero alle pubbliche assemblee ed erano i più forti urlatori e i più assidui seguaci dei demagoghi. In quegli ultimi anni della repubblica, nel pieno della potenza romana, era già manifesta una notevole promiscuità di razze e di individui di varia provenienza non solo nella Capitale ma, più o meno, nell’intero Paese. Già da tempo milioni di esseri umani vivevano insieme sul territorio italico senza avere unità di ideali, di vita e di intenti, ma solo la comune volontà di sopravvivere. Milioni di schiavi e di liberti provenienti dalle tre parti del mondo si ritrovavano insieme nelle campagne, nelle tenute e nelle case dei patrizi e dei benestanti della Capitale.

    Tanti stranieri soddisfacevano le esigenze della speculazione e integravano o sostituivano l’insufficiente o la mancante forza lavoro autoctona. Colmavano il vuoto che si era creato perché una considerevole parte della popolazione del Paese era emigrata, dedita alle armi, al commercio e all’amministrazione delle lontane province, e, di solito, non tornava più in patria, dove l’elemento romano e latino andava scomparendo o era quasi del tutto scomparso. Mentre così gran parte d’Italia si svuotava dei propri abitanti, riceveva un’eterogenea popolazione proveniente dalle più diverse province d’oltremare e d’oltralpe.

    Un crescente gran numero di quegli immigrati si andò integrando formalmente nel corpo sociale. Tuttavia, non si può dire che quel gran numero di nuovi venuti e di loro discendenti abbia mai formato un popolo con la sua identità, un corpo omogeneo con unità di essere e di sentire, capace di operare e di difendersi. Innumerevoli schiavi mutarono il loro stato sociale, divennero liberti e liberi e, nel tempo, furono parte integrante della società. Nonostante tuttavia questa loro integrazione, restarono un corpo estraneo. Certo, in alcune aree colmarono in parte il vuoto demografico esistente e sopperirono alla necessità di braccia, ma sostituirono solo fisicamente la popolazione mancante.

    Nei quattro secoli durante l’impero, milioni di schiavi e di stranieri della più diversa provenienza continuarono a operare nelle aziende agricole, nelle città e nei palazzi dei ricchi. Milioni di esseri umani, con mentalità, modi di essere, tradizioni e credo diversi si trovarono insieme e stettero insieme, loro e i loro discendenti. Nessun segno ci mostra altro che questa loro necessaria coesistenza e la loro formale integrazione nella società. Se però si esamina quel che avvenne in quei secoli e dopo, si può dire che, nel loro stare insieme, quegli ospiti più o meno integrati non hanno mai acquisito un sentimento comune, un cemento che li abbia uniti idealmente e li abbia resi parte inscindibile della comune terra che li ospitava.

    La sostanziale incomprensione e la mancanza di unità e di coesione possono essere poste all’origine della persistente estraneità degli innumerevoli oriundi alle istituzioni e alla nazione e del conseguente stravolgimento del carattere della società. La mancanza d’identità, di forza, di coraggio e di senso civico, che distingue gli abitanti di Roma della fine dell’impero da quelli dei secoli anteriori alla fine della repubblica, è in gran parte da cercare appunto in quella mancanza di coesione e di effettiva partecipazione. È da cercare nella disunione di sentimenti e di intenti di quei molti milioni di esseri umani e nella loro ormai atavica promiscuità che restò sempre sostanzialmente immutata. Certo, tanti stranieri si erano giovati del loro reciproco ausilio ed erano stati utili l’un l’altro. Ma forse da allora si erano intesi in una sola cosa: nel difendersi dal padrone e dallo Stato, nel detestarli e possibilmente nel combatterli. Molti di loro si erano integrati formalmente nel corpo sociale e avevano lavorato con impegno e prodotto. Per diverse generazioni i loro discendenti avevano certo continuato a trovarsi insieme e a convivere negli stessi luoghi. Tuttavia non si può dire che si fossero mai intesi completamente. Non si può dire che fossero mai giunti ad avvertire comuni sentimenti di appartenenza alla stessa nazione e a condividere supremi valori ideali, cioè ad acquisire quei requisiti che fanno cittadini gli uomini.

    Nel quinto secolo dopo Cristo, l’impero romano offriva il triste e desolante spettacolo del disfacimento generale conseguente a una lunga éra di decadenza. Gli abitanti di Roma, in parte notevole cittadini romani a tutti gli effetti, erano piuttosto discendenti dei milioni di schiavi e di liberti. Erano discendenti degli immigrati e dei loro eredi che da cinque secoli pullulavano nella Capitale e nei latifondi, cioè da prima della fine della Repubblica. Nella Capitale e in altre città italiche erano da tempo svaniti anche gli ultimi residui dell’antica libertà e della dignità romana. Le calamità e la grande promiscuità di genti di razze e di provenienze diverse avevano poco a poco diluito l’orgoglioso sentimento della libertà e della gloria. Non sopravviveva nulla del tempo del valore degli antichi romani, quando città e province erano soggette alle leggi e alle armi del governo della Repubblica. Il Paese diveniva preda di molti poteri particolari e di infiniti conflitti tribali e affondava nel marasma. Con la società che da tempo era andata sempre più rovinando, si erano afflosciate le legioni e le istituzioni, che erano state la sua difesa e la sua guida. L’incapacità di difendere la propria sopravvivenza non si può spiegare solo con la corruzione e con i vizi diffusi in una popolazione oziosa. Non si può spiegare quindi con l’esaurimento delle energie fisiche del popolo e della stirpe romana, latina e italica. Non si può spiegarla perché quelle energie fisiche erano state sostituite per lungo tempo da energie e forze provenienti da fuori. Si può invece sostenere che quella incapacità si debba riguardare come conseguenza della ormai congenita disunione, dello strano amalgama e della mancanza di coesione di quelle nuove energie. Fu soprattutto quella disunione che determinò lo sfacelo.

    Non erano certo ora cresciute le forze e la potenza dei Barbari rispetto ai secoli precedenti.

    Al contrario, erano cambiati i Romani, o meglio coloro che li avevano sostituiti, che del passato conservavano solo il nome. Sotto l’impero le istituzioni ebbero una valida difesa nelle legioni e sopravvissero. Allora la decadenza e la disgregazione possono essere spiegate anche e soprattutto con l’eterogeneità della popolazione dalle radici tanto diverse e senza identità, che quantomeno le hanno aggravate. Che questa eterogeneità possa avere avuto un così grande effetto, si può desumere anche dalle conseguenze che ebbe sull’esito di avvenimenti di meno vasta portata.

    A invadere e occupare il Paese non furono popoli interi, come avvenne in altre province dell’Impero (la Gallia, la Britannia, l’Iberia), ma un’infinità di individui di razze e di provenienze più varie, senza unità di popolo. Furono milioni di individui che affluirono nel tempo, si moltiplicarono e non riuscirono mai a trovare effettiva e sostanziale coesione. E in questa differenza è l’origine della profonda diversità del carattere degli Italiani da quello di altri Popoli europei, anche a distanza di tanti secoli.

    L’immigrazione aveva dunque introdotto nel Paese un’infinità crescente di individui che nel tempo divennero formalmente cittadini delle medesime città degli autoctoni e abitanti delle medesime contrade. Comunicarono per mezzo della stessa lingua. Acquisirono le medesime abitudini e condussero il medesimo modo di vivere. Non ebbero però un comune sentire, non si prefissero un medesimo fine e non assursero mai alla dignità di popolo. Il loro numero si sovrappose piuttosto a quello degli indigeni che, in quelle regioni italiche, divennero sempre più assoluta minoranza. Le nuove generazioni non acquisirono mai quella invisibile molla interiore che spinge gli uomini alla collaborazione protesa a un fine comune che non sia solo quello di reagire all’oppressione o di badare solo al proprio particolare interesse. La loro sostanziale incomprensione si era tramandata e aveva impedito che uomini viventi gomito a gomito si intendessero a pieno. Si era andato così formando il carattere di una popolazione poco sensibile alle esigenze della comunità composta di individui poco rispettosi dei diritti e delle spettanze del prossimo, di solito poco disciplinati e piuttosto ossequenti alla forza.

    Non è peregrino affermare che i caratteri che si erano andati formando nell’antichità, dal tempo della repubblica di Roma antica, sfidarono i secoli. Ancora nel 1860, a tanta distanza di tempo, quando si giunse all’unità politica del Paese, si constatò che l’Italia era fatta, ma che gli italiani erano ancora da fare. Che questa loro mancanza di identità e di coesione non fosse la conseguenza del carattere e della composizione della società di tanti secoli prima?

    Nel Paese si era andata formando una popolazione eterogenea che, a distanza di secoli, nessuna unità politica, nessun regime e nessuna moderna costituzione riuscirono ad amalgamare sostanzialmente e a rendere capace di unità di intenti e meno litigiosa.

    Cerchiamo di vedere meglio come ciò sia avvenuto, a costo di ripeterci.

    Nell’antichità, vecchi e nuovi venuti andarono sempre più formando la massima parte della popolazione non solo nella città di Roma. Erano europei, asiatici, africani, provenienti dai luoghi più diversi e lontani. Nonostante la loro diversità, si trovavano a lavorare e a vivere nella stessa città o nella stessa azienda o nella stessa villa signorile. Si può dire che si sono integrati, almeno formalmente. Vivevano e lavoravano insieme, parlavano la stessa lingua e conoscevano le leggi romane o, almeno, quelle che punivano le loro trasgressioni. I figli di molti di loro frequentavano le scuole insieme con i figli dei romani superstiti. Ma non si può dire fino a che punto i nuovi venuti o i loro figli o i loro nipoti, cioè gli immigrati di prima, di seconda, di terza generazione o di generazioni successive, fossero andati oltre la conoscenza della lingua e delle leggi romane e oltre l’esigenza di lavorare insieme per sopravvivere o per arricchirsi. Non si può dire se si fossero integrati sostanzialmente oltre che formalmente; se cioè oltre a parlare e a obbedire allo stesso modo e a lavorare insieme, avessero acquisito la medesima identità, avvertissero lo stesso vincolo che li unisse, lo stesso legame a un punto comune di riferimento, alla patria, alla tradizione, a un comune ideale e alla società in cui si trovavano.

    Risultò presto una crescente promiscuità di individui e la formazione di una società composta di un’umanità eterogenea, di difficile coesione, sostanzialmente conflittuale e radicalmente diversa dall’umanità precedente.

    Nei primi secoli della Repubblica, i Giuli, i Coruncani, i Porzi erano famiglie provenienti da città poste a poche miglia da Roma; i Sabini, gli Etruschi, i Lucani, i Volsci, gli Equi erano popoli abitanti in regioni della penisola italica. Quelle famiglie e quei popoli avevano cultura e costumi affini a quelli dei Romani e nessuno sconvolgimento poteva produrre la loro immigrazione nella Capitale o il loro reciproco afflusso. I Balbi venuti dalla Spagna e altri nobili venuti dalla Gallia erano famiglie sparute. Gli Edui, ai quali un senatoconsulto conferì il diritto di accedere al senato romano, erano un popolo intero della nazione gallica.

    Non fu allora l’immigrazione di quelle famiglie e l’acquisizione di quei popoli che generò l’insostenibile promiscuità che si verificò nel tempo. Non si poteva allora e non si può oggi indicare l’immigrazione di quelle famiglie e l’acquisizione di quei popoli per avvalorare i vantaggi e gli effetti che produsse l’immigrazione. Al tempo della repubblica e dell’impero di Roma antica a produrre il caos e lo stravolgimento dell’identità non furono l’immigrazione di famiglie italiche e l’acquisizione e in seguito l’invasione di popoli interi (di popoli cioè che si riversarono nella Gallia, nella Britannia, nell’Iberia). Al contrario, a produrre la deleteria promiscuità e la conseguente conflittualità fu l’immigrazione a Roma e in Italia di milioni di singoli individui con costumi, cultura e tradizioni diversi provenienti da ogni parte del mondo.

    Gli effetti dell’immigrazione di famiglie italiche e dell’acquisizione di popoli interi non possono essere confusi con gli effetti deleteri che produce l’afflusso di milioni di immigrati con estrazione, cultura, costumi e tradizioni più disparati provenienti da ogni angolo del Pianeta. Non potevano essere confusi venti secoli or sono e non possono essere confusi nell’Europa del ventesimo e del ventunesimo secolo, in cui si sta verificando lo stesso fenomeno di allora, in cui cioè milioni di individui, componenti l’arcipelago migratorio, estranei gli uni gli altri e di decine di razze e provenienze diverse, invadono e sconvolgono la società decadente di alcuni paesi europei.

    Delle conseguenze disastrose di quel progrediente stato di cose non si accorsero i contemporanei né allora, nell’antichità, né dopo.

    Certo non sfuggiva loro, come non sfuggì a Tacito, che un popolo conservava tanto più il proprio carattere quanto meno era contaminato dalla promiscuità con altre genti. E questo si poté constatare nei secoli che seguirono. Gli innumerevoli immigrati, i loro figli e i loro discendenti ebbero diversi secoli per integrarsi sostanzialmente nel tessuto sociale. Ma essi, come si può arguire dagli avvenimenti futuri, non si sono mai integrati sostanzialmente. Nonostante il loro adattamento e la convenienza ad adeguarsi alle esigenze della convivenza apprendendo la lingua e rispettando le leggi per sopravvivere e per prosperare, non si sono mai intesi profondamente tra loro, né con la popolazione autoctona, e non sembra che abbiano mai acquisito una nuova identità. Sono rimasti sé stessi.

    La società romana continuò a sopravvivere multietnica e multiculturale, ma non riassunse mai la dignità di popolo. Restò intimamente estranea al significato della frase «senatus populusque romanus», che era stata sacra per il popolo romano dei secoli della Repubblica.

    La società romana e italica dei secoli dell’Impero andò trasformandosi. Divenne promiscua, servile, senza nerbo, senza ideali e senza identità e non in condizioni di difendersi e di difendere le istituzioni e il governo. Divenne l’ombra di se stessa, la negazione di quel che era stata prima che l’invasione e l’occupazione di innumerevoli immigrati e la conseguente promiscuità producessero sostanziale sconvolgimento, crescente decadenza, smarrimento dell’identità, mancanza di unità e la fine delle istituzioni di una società un tempo gloriosa.

    Nel quinto secolo dopo Cristo, Roma e l’Italia erano divenute la parodia di quello che erano state quando ancora la promiscuità e lo sconvolgimento non si erano consolidati, quando ancora non erano divenuti tessuto sociale. La società e le sue caotiche istituzioni erano irriconoscibili. In essi erano prevalsi caratteri e modi di vivere e di agire degli innumerevoli immigrati e dei loro discendenti che, nonostante l’integrazione formale, erano rimasti sostanzialmente estranei a una nuova identità e a un nuovo modo di sentirsi parte dell’insieme. Si era formata una società ibrida, senza carattere, senza ideali e senza punti fermi di riferimento; una società che era il risultato del miscuglio di innumerevoli individui di razze, di costumi, di tradizioni, di modi di vivere più diversi e opposti: di connotati che hanno impedito a quei tanti individui di integrarsi sostanzialmente. Quella società era anche il risultato dell’indirizzo politico essenzialmente cosmopolitico che Roma e l’Italia avevano avuto sin dal primo secolo avanti Cristo, dagli ultimi decenni della Repubblica, quando già gli immigrati provenienti dalle province d’Europa, d’Africa e d’Asia componevano la maggior parte degli abitanti di Roma.

    Tanti stranieri, immigrati da poco o da molto tempo, mentre turbavano i rapporti sociali e condizionavano la politica, non avevano alcun attaccamento al prossimo ed erano del tutto indifferenti per la sorte che poteva avere la cosa pubblica. Si comportavano con estrema leggerezza e restavano estranei a qualsiasi novità che potesse giovare al buon funzionamento delle istituzioni e che non tornasse utile ai propri interessi. Il loro comportamento, che accresceva la diffusa corruzione, era mal controllato. Sul loro conto le istituzioni esercitavano una sorveglianza blanda e inefficiente e quando, poi, cercarono di renderla meno distratta, quella loro sorveglianza fu accusata di essere fuorilegge, un attentato alla libertà.

    In quei decenni del crepuscolo dell’Impero il prevalente carattere ormai da tempo radicato nella società romana e italica si accompagnava con la diffusa mancanza di dignità e di onore e con la totale scomparsa di orgoglio e perfino della memoria di quello che l’antico popolo romano, gli antichi cittadini romani e italici erano stati. Con la dignità, con l’orgoglio e con la memoria del passato era scomparsa ormai da molto tempo la capacità di difendersi. Gli avvenimenti di quegli ultimi decenni dell’impero non si possono rievocare senza raccapriccio. Furono sconvolgenti. Un susseguirsi di sconfitte, di saccheggi, di umiliazioni che subirono città indifese e cittadini inermi, codardi ed effeminati. Un succedersi di invasioni, di soprusi, di violenze, perpetrati a volontà da orde di invasori e di occupanti, come i Goti e i Vandali, ai quali gli evirati, indolenti e discordi abitanti di Roma e d’Italia non opposero alcuna resistenza. Cercarono di scendere a patti con quei barbari, ma furono da essi disprezzati e subirono soprusi, violenze, spoliazioni, deportazioni, senza reagire.

    Quegli abitanti di Roma e d’Italia avevano perduto da molto tempo perfino la dimestichezza con le armi. Era impossibile intravedere in loro un minimo segno dell’antico valore e neppure del carattere, della dignità, dell’orgoglio, del senso di appartenenza alla Città e allo Stato, del sentimento di patria e dell’attaccamento alle gloriose tradizioni e alle istituzioni degli antichi romani. Era impossibile intravedere in quegli abitanti un retaggio del passato. Niente di quel passato poteva allora emergere, perché era tutto scomparso, perfino nella memoria.

    Da molto tempo, in quel quinto secolo dopo Cristo gli abitanti di Roma e d’Italia non avevano nulla del passato perché non avevano nulla da spartire con il popolo romano che aveva costruito la propria civiltà e aveva affermato la propria superiorità, facendola accettare al resto dell’umanità. Quegli abitanti non erano un popolo e avevano cessato di esserlo da alcuni secoli, molto prima che crollassero le istituzioni e finisse l’Impero. Componevano un insieme che era il risultato del miscuglio di innumerevoli individui, provenienti da ogni angolo delle tre parti del mondo conosciuto; il risultato della promiscuità di individui che erano rimasti estranei gli uni gli altri, indifferenti e ostili al pubblico interesse e tutti contro tutti.

    Vivendo insieme per convenienza o per necessità di sopravvivenza, quegli abitanti avevano da tempo perduto la capacità di organizzarsi e non seppero difendersi neppure per continuare a sopravvivere.

    Quella confusione etnica e culturale, che si protrasse a Roma e nel Paese per alcuni secoli, fu l’inizio della fine dell’Impero e del crollo politico e civile di una società e delle sue istituzioni. Formò un nuovo carattere distintivo della popolazione, che fu indelebile nonostante sussulti settoriali di rinascita e di ricomposizione che, qua e là, durarono più o meno ed ebbero protagonisti nuclei di èlite sociale. Formò un carattere che, in futuro, distinse sempre la popolazione italiana da ogni altro popolo europeo, compresi quelli neolatini.

    La popolazione che si andò trasformando nell’antichità non acquisì mai quella invisibile molla interiore che spinge gli uomini alla collaborazione protesa al conseguimento di un fine comune che non sia solo quello di reagire all’oppressione o di badare solo al proprio particolare tornaconto. La sostanziale incomprensione fu prevalente, si tramandò e impedì che uomini viventi gomito a gomito si intendessero a pieno. Si andò così consolidando il carattere di una popolazione sorda alle esigenze della comunità, all’interesse dell’insieme composto di singoli individui dominati dall’egoismo e indifferenti verso i diritti e le spettanze altrui, di solito indisciplinati e ossequenti solo alla forza.

    In seguito questo suo carattere non mutò sostanzialmente, specialmente nelle aree in cui era più marcato e diffuso. In specie i ceti meno abbienti non mutarono il proprio atavico carattere. Ancora nel XVIII e nel XIX secolo, in molte regioni italiane, prevalevano la mancanza di coesione nella popolazione, la disorganizzazione, l’inefficacia delle leggi, la caotica ribellione di individui e di gruppi nonché l’incapacità di mettersi al passo con la crescita economica di altri paesi europei.

    Non è arbitrario affermare che il carattere della popolazione romana e italica che si era andato formando nell’antichità, sfidò i secoli. Se si eccettua qualche sparuta eccezione, si manifestò nella persistente mancanza di coesione, di ossequio al dovere civico e nell’assenza di comuni ideali. Fu evidente nella società frazionata e recintata dei molti stati e poderi del Medioevo e nelle rinate città degli albori dell’età moderna. All’inizio del quattordicesimo secolo, quel carattere caotico e quella disgregazione erano propri della società di ogni parte d’Italia. Destavano sgomento e sdegno, e Dante Alighieri non trattenne il proprio sfogo condannandoli aspramente in pochi scultorei versi: «Ahi, serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!». E alcuni anni dopo, Francesco Petrarca non vedeva altro intorno a sé che simulacri e rovine, benché non rinunciasse a coltivare l’auspicio che «l’antico valor negli italici cor non è ancor morto». E cinque secoli dopo, agli inizi dell’Ottocento, quell’immutato carattere, quel caos e quella mancanza di coesione e di unità di intenti fecero dire al ministro austriaco che l’Italia era «un’espressione geografica». E Metternich la definiva così non perché l’Italia era divisa politicamente, ma soprattutto per il prevalente carattere precario e conflittuale delle entità che la formavano e dei suoi abitanti.

    In realtà anche allora, nei primi decenni dell’Ottocento, quella mancanza di coesione e di intesa negli abitanti della Penisola si poteva spiegare guardando al lontano passato, a un’origine ormai dimenticata ma non mai scomparsa. Nel 1861, quando si giunse all’unità politica del Paese, si constatò che l’Italia era fatta, ma che gli italiani erano ancora da fare. Dopo di allora, nei centocinquantanni seguenti, quel carattere persistette sostanzialmente immutato. Anche se assunsero forme diverse, il carattere litigioso degli Italiani a tutti i livelli, la loro mancanza di coesione, l’indefinita comune identità, il loro scarso attaccamento a comuni interessi, il loro debole entusiasmo per l’appartenenza alla terra natale e alle sue tradizioni, persistettero sempre. Non mutarono nonostante gli sforzi eroici di pochi uomini eccezionali e nonostante costituzioni e leggi.

    È arbitrario dire che la mancanza di coesione e la scarsa identità persistenti nel ventunesimo secolo siano eredità del carattere promiscuo e caotico formatosi nella popolazione nei secoli dell’antichità romana?

    Si può dire che, dai primi secoli dopo Cristo, durante il Medioevo e l’Età moderna e contemporanea, quanto di trasgressivo e di caotico c’è stato nel mondo, è nato in Italia. La confusione politica e istituzionale e le lotte tra fazioni, tra borghi, tra bande, tra casate, tra gruppi e tra individui furono ininterrotte durante i secoli del basso impero e del basso medioevo. Nei secoli successivi fu ininterrotta la guerra tra stati e staterelli e si perpetuò l’endemico conflitto tra famiglie e tra fazioni nelle città che si andavano formando anche per la fuga di ribelli e di avventurieri dalle campagne. Il banditismo, le rivolte, le congiure, le sommosse e quanto c’è al mondo di caotico e di confusionario non vennero meno nei secoli dell’età moderna. Da quello stato di cose caotico e confusionario sono emerse arte e ricchezza, cui sono subentrate depressione e arretratezza fino all’epoca contemporanea.

    Lo Stato che nasce nel 1861 per la generosità e il genio di pochi antesignani, realizzando l’unità formale del Paese, deve innanzitutto combattere al suo interno quanto di caotico, di disordinato e di confusionario si tramanda da secoli. Emerge presto la necessità di dovere agire in profondità e si fa evidente che è ardua l’impresa di dovere influire sulla mentalità atavica e sull’inveterato carattere di genti tra loro incomunicabili e litigiose, il cui incorreggibile individualismo non ha mai avuto un epilogo e non è mai potuto sfociare in una rivoluzione costruttiva. Si constata invece che quella mentalità e quel carattere sfociarono nel brigantaggio, nella più organizzata associazione criminale che ci sia mai stata sulla terra, nelle squadre violente e nella loro marcia comico-tragica, nelle milizie tricolori, nelle brigate nere e rosse. Sfociarono pure, tra l’altro, nel capitalismo di poche famiglie, anch’esso caotico e litigioso, e nello spettacolo di battibecchi, di chiacchiere, di litigi, di confusione, che offrono politici e politicanti a tutti i livelli, burocrati, funzionari, ufficiali, imprenditori, redditieri, giurisperiti, magistrati e gli innumerevoli abitanti di condomìni di città grandi e piccole.

    È pertanto assai difficile capire come sia stato e sia possibile che, in tanto caos e in tanta confusione, sia potuto e possa sopravvivere un corpo sociale che continua ad esistere formalmente unito. Non è facile capire come dal caos e dalla confusione di Napoli, di Palermo, di Reggio Calabria, di Bari siano potuti emergere la grande saggezza e l’esemplare equilibrio di tanti uomini illustri. È pure difficile capire come sia stato possibile che dalle lotte e dalle fazioni litigiose di Firenze siano scaturiti uomini che hanno dato lustro all’Italia e all’umanità. È inoltre difficile capire come sia stato possibile che dal caos, dalla confusione e dalle lotte operaie e contadine siano emersi individui e famiglie che, pur nel litigio, hanno creato e fatto progredire un capitalismo finanziario e industriale che ha retto al confronto con la concorrenza nel mondo.

    Dagli anni quaranta del Novecento, la Carta costituzionale varata durante il marasma seguìto al disastro bellico, guidò governi e istituzioni e segnò il corso seguìto da allora, ma poté influire poco sull’atavico carattere individualistico e caotico degli Italiani. Al contrario, quel caos e quella confusione con radici millenarie trovarono in essa il mezzo garantista e liberale per persistere senza freni né remore. In tal modo, ai malanni vecchi e ancestrali si aggiunsero quelli nuovi che, in qualche generazione, accrebbero l’antico malessere emulando anche vizi e difetti di Paesi già da tempo ricchi e opulenti. Da quegli anni Quaranta al secondo decennio del Duemila movimenti e partiti politici, fazioni, poteri dello Stato, poteri occulti, organizzazioni fuorilegge, gruppi eversivi sono in guerra più o meno palese. I contrasti tra i loro esponenti sono infiniti e le dispute continue e assordanti. I rapporti costituzionali formalmente liberali e democratici mutano nella prassi e sono eterni conflitti tra individui, tra gruppi, tra poteri, che mirano a prevalere per affermare interessi di parte, di bottega, di clan, di famiglie. Il sistema pluripartitico o bipartitico di organizzazione politica è instabile e confusionario. Le diverse e opposte parti sono in rapporti conflittuali e le loro alleanze sono fragili, contratte da ognuna per il proprio esclusivo interesse. E per prevalere i loro esponenti ricorrono a ogni mezzo, che va dalla denigrazione alla menzogna, alla calunnia, all’accusa infondata e che essi difendono con prolissi discorsi, con sottili distinzioni, con ragionamenti bizantini con cui dimostrano tutto e il contrario di tutto. Nel caos e nella confusione si perpetua così il carattere atavico degli Italiani, litigioso e conflittuale.

    Come nell’antichità romana, oggi il capitale sta producendo effetti insieme positivi e negativi. Mentre contribuisce a generare la crescita economica e l’aumento del benessere materiale, sfocia nel deterioramento del costume, nella diminuzione della popolazione attiva e produttiva, nel vuoto demografico e nella necessità di coprirlo, come nell’antichità, con l’immigrazione. Come nel lontano passato, gli effetti che produce il capitale sono contraddittori: migliorano le condizioni materiali della popolazione e, nello stesso tempo, distruggono le sue risorse umane e la sua forza vitale. Rendono quindi necessario integrare quelle risorse e quelle forze con l’afflusso di immigrati. E questo avviene anche se quel loro afflusso è eccessivo, disordinato e caotico, e crea nel Paese promiscuità e sconvolgimento sociale. Si verifica pure che i danni che quell’afflusso può produrre non destano alcuna preoccupazione, un minimo allarme negli Italiani, o almeno nella grandissima parte di essi. Certo, gli immigrati e i loro discendenti trovano conveniente la convivenza acquisita, i vantaggi dell’istruzione e dell’acclimatazione. Si constata però che essi, dopo generazioni, non superano la barriera dell’estraneità, della profonda e sostanziale diversità. Si integrano formalmente nell’ambiente ormai loro e dei loro padri, ma non si integrano mai sostanzialmente nel corpo sociale. Fanno parte di una società disomogenea, composta di individui formalmente vicini e partecipi, ma estranei e lontani gli uni gli altri. I quali trovano che sia conveniente continuare a vivere, a lavorare, ad arricchirsi e a gozzovigliare insieme, pur senza dovere superare l’invalicabile muro dell’estraneità e dell’indifferenza verso i conterranei. Mentre restano sempre sostanzialmente estranei agli interessi comuni, indifferenti alle sorti del paese di adozione e attenti solo alle proprie esigenze di successo e di sopravvivenza.

    È utile tenere conto delle conseguenze che può avere il modo di essere e di agire degli innumerevoli individui immigrati nella società dei paesi avanzati del ventunesimo secolo. Può accadere che tanti individui di diversa provenienza ed estrazione formino una comunità di estranei, un corpo sociale senza anima, una moltitudine crescente di individui tenuti insieme dalla forza delle istituzioni, finché queste saranno in grado di svolgere la propria funzione e di imporre la propria autorità. L’amalgama tra autoctoni e nuovi venuti non ci fu mai. Non ci fu nell’antichità, in diversi secoli in cui ebbe tutto il tempo per realizzarsi, in quel clima di cosmopolitismo che tanto somiglia alla globalizzazione. Non ci fu dall’antichità ai nostri giorni, nei molti secoli di endemico sconvolgimento e di disunione sociale e politica.

    Non è certo con la conoscenza della lingua e della Costituzione del Paese ospitante, con il diritto di voto, con l’acquisizione della cittadinanza in cinque o dieci anni, che si può realizzare l’integrazione o la coesione o l’amalgama. Neppure altre condizioni, come la scuola e l’istruzione, possono agire in profondità. In genere, l’immigrato si sente, è e rimane sostanzialmente estraneo, con o senza la conoscenza della lingua e della Costituzione, con o senza uguaglianza di diritti. Anzi, diviene presto inadatto a svolgere il lavoro per il quale è stato necessario ricorrere al suo apporto e non è più in grado di sostituire la manodopera carente. La sostanziale integrazione non si può concepire disgiunta dall’acquisizione del profondo sentimento di appartenenza alla comunità e di attaccamento alle istituzioni e alle tradizioni del paese in cui si vive. L’adempimento del dovere civico e l’osservanza delle leggi non mutano il senso di estraneità. E pertanto l’integrazione cui si fa spesso riferimento, da realizzare in un quinquennio o in un decennio o in diverse generazioni, è solo integrazione formale, determinata dalla convenienza e dal bisogno di sopravvivenza. Non sono le leggi né i provvedimenti del governo e neppure la scuola che possono mutare l’integrazione formale in integrazione sostanziale.

    La radicale diversità di milioni di individui e la promiscuità che nacque rivelarono nel lontano passato e nei due millenni che seguirono quanto esse rendessero inconciliabili e non amalgamabili genti tanto eterogenee. La miscela sociale che si formò allora trasmise il suo carattere disomogeneo e conflittuale nei secoli. E questo è oggi il carattere degli Italiani.

    Il carattere della società promiscua di Roma antica lo troviamo in ogni regione d’Italia nel Medioevo e nell’Età moderna e contemporanea. L’endemico conflitto è sempre stato presente in Italia, nei suoi abitanti di ogni condizione, di ogni livello sociale e culturale. È stato proprio della condotta dei servi e dei padroni nei latifondi e nei poderi; degli abitanti delle contee, dei comuni, delle signorie, degli stati laici ed ecclesiastici e poi di quello nazionale. È stato frequente, e quasi continuo, nei conventi e negli altri luoghi religiosi, nelle caserme e nelle milizie, nelle scuole, nelle università, negli uffici, nelle aziende. Nei due millenni trascorsi ha lasciato il segno nelle città e nelle campagne. In ogni rapporto e in ogni attività, in ogni strato e ceto sociale è sempre regnato il dissidio, il contrasto cieco e irragionevole, la lotta occulta e palese.

    In Italia la società mutò consistenza numerica, composizione, condizione, ma non mutò quel suo carattere acquisito nel passato. Nei molti secoli del Medioevo e dell’Età moderna e contemporanea essa fu afflitta da continui sconvolgimenti. Si susseguirono invasioni, lotte tra e nei latifondi e poi tra e nei feudi, conflitti tra contadi, ducati, abbazie, comuni, signorie, e al loro interno. I singoli abitanti della Penisola, sudditi o cittadini, vissero di solito in conflitto,  gli uni contro gli altri, in alto e in basso, nel governo, nel parlamento, negli organi giudiziari, negli enti, negli uffici, nei condomini, nei rapporti umani e di lavoro. Quando poté, ognuno di essi grattò o cercò di grattare qualcosa a un altro, al cliente, alla comunità o allo Stato. Fu questa sempre ed è l’endemica lotta sorda e occulta che permane da secoli.

    Molti autori in numerosi scritti hanno percorso la storia di singole parti e regioni d’Italia e di periodi diversi. Negli ultimi decenni del Novecento Indro Montanelli, Roberto Gervaso e Mario Cervi, in una serie di contributi, percorrono l’intera storia d’Italia dall’antichità ai nostri giorni e non più solo singoli tratti e singole parti di essa. La loro è una visione d’insieme nuova, eccellente e utile, che rompe con la tradizione storiografica che, se si eccettua l’opera di Ludovico Antonio Muratori, volse sempre l’attenzione alle singole parti del Paese e a limitati periodi. Dai loro contributi si possono facilmente ricavare le prove di quanto abbiamo sopra cercato di spiegare. Con la conflittualità che si protrasse nei secoli emerge la particolarità del carattere e del comportamento di molti Italiani. Emerge il loro modo di essere e di agire che, relativamente agli anni Sessanta del Novecento, provocò il giudizio espresso dai tre autori nel 1993 in L’Italia degli anni di fango, che val la pena riportare. «Forse – essi scrivono – la spiegazione più verosimile [della condotta di particolari personaggi] sta nello spirito gregario e conformista degli Italiani, falsi individualisti ed autentici uomini di branco, che cercano disperatamente – soprattutto gli Italiani inseriti negli ingranaggi politici o amministrativi – appoggi, maniglie, assicurazioni, controassicurazioni. Per mantenere una poltrona, per conquistarne un’altra, per garantirsi – i grands commis – una qualche nicchia privilegiata – una presidenza o un consiglio d’amministrazione – da occupare quando scatterà la pensione. In questa insaziabilità e in questa insicurezza stanno le molle più forti del successo ottenuto dalla P2: e si deve pensare che Gelli avesse un’abilità diabolica – non per niente fu detto Belfagor, restando a Giulio Andreotti il nomignolo di Belzebù – nel far balenare davanti agli occhi di quei tremebondi ambiziosi altre cariche, altri onori, altre prebende.» Questa sentenza emessa dai tre autori rimarca la morbosa corsa d’eminenti personaggi, di gente abbastanza provveduta, alla scalata di carriere, alla ricerca di garanzie, di più alti ruoli, di più remunerati appannaggi, e di più grandi poltrone. Sono insaziabili arrivisti. Sono 119 alti ufficiali delle forze dell’ordine e dell’esercito, magistrati, parlamentari, ministri, individui che hanno «raggiunto posizioni eminenti e ottenuto grandi soddisfazioni» e che, nonostante quelle loro invidiabili posizioni, mirano ad altro senza ritegno, sempre più oltre e più in alto.  Il loro è uno degli aspetti del carattere degli Italiani «falsi individualisti e autentici uomini di branco». È l’aspetto di un carattere diffuso non solo nei ceti alti e dirigenti, ma in ogni settore della società, negli individui di ogni condizione, anche nei meno fortunati e nei meno provveduti, i quali, se e quando possono, fanno come e forse peggio delle eminenze.

    Nei secoli la società italiana non si spogliò mai del suo carattere atavico. Nella massima parte gli Italiani non nutrirono mai un profondo sentimento della propria identità, non ebbero mai unità d’intenti, punti fermi di riferimento, coesione sociale, spontanee tacite intese. In alto e in basso, signori, potenti e no, laici ed ecclesiastici cercarono sempre negli altri, fuori dei loro possessi e dei loro Stati, in Francia e in Germania, ausilio per procurarsi la difesa, per combattere il nemico loro prossimo e per superare ostacoli e momenti difficili. All’interno dei singoli stati, signorie e repubbliche in cui era diviso il Paese, in massima parte gli abitanti, in alto e in basso, vissero in un clima di conflitto, di scontro.

    Il primo morbo che afflisse e affligge la popolazione italiana fu dunque il prodotto dell’immigrazione, della disordinata e caotica invasione della Penisola nel lontano passato. Oltre una dozzina di secoli dopo, a quel primo morbo si aggiunse in Italia un secondo morbo. Esso fu il prodotto della criminalità organizzata, di un’associazione che, nel Cinquecento, giunse dalla Spagna, si ramificò prendendo il nome di camorra, di mafia, di ‘ndrangheta. Con il suo avvento il Paese si arricchì di una conflittualità del tutto particolare, che si aggiunse all’esistente conflittualità sociale e ne accrebbe gli effetti. I danni e lo sconvolgimento sociale che produsse e produce la sua attività sono noti, sono stati minutamente sviscerati in innumerevoli scritti. È superfluo pertanto che ora qui riesponiamo ed esaminiamo quei suoi deleteri effetti che sono noti nei minimi particolari.

    Il secondo morbo non fu l’ultimo. Nel terzultimo decennio del Novecento nacque, crebbe e si assommò a quelli esistenti un terzo morbo tanto somigliante al morbo antico. Una miriade di individui di razze, di provenienze, di costumi e di credi diversi e lontani tra loro, si riversò in Italia mutandone i connotati e attentando ai costumi, alle abitudini e alle conquiste civili del Paese. Fu un flusso migratorio eccessivo e caotico che continua ininterrotto dagli anni Settanta del Novecento, e nessuno può sapere se e quando esso avrà fine. La derivante invasione e la promiscuità di individui di eterogenea provenienza ed estrazione producono evidenti effetti conflittuali che si aggiungono a quelli prodotti dagli altri due morbi. Certo, lo sconvolgimento che subisce il corpo sociale è parzialmente compensato dall’utilizzo dell’apporto lavorativo regolare e irregolare di una parte dei nuovi venuti. Ma la massima parte di essi produce nell’immediato e nel futuro danni, sconvolgimento e conflitto. Produce effetti deleteri che sono sotto gli occhi di tutti e che in tanti anni la pubblicistica ha minutamente esaminati. È pertanto ora superfluo intrattenerci. Osserviamo solo che ai precedenti due morbi (il retaggio del lontano passato e la criminalità organizzata) si aggiunse il terzo morbo, l’immigrazione. Con essa, alla conflittualità, retaggio del passato, si aggiunse la nuova. Non è dunque sorprendente che nel 2018 e nel 2019 il conflitto sia continuo anche nel parlamento e nel governo, e tra i loro membri.

    Nei secoli, dunque, il morbo atavico, la conflittualità, imperversò a tutti i livelli e in tutti i settori. Fu evidente – come si è detto – tra dominatori e dominati, tra potentati e potentati, tra signori e servi, spesso gli uni contro gli altri o in endemica rivolta. Quel primo morbo fu sempre contenuto, frenato e, spesso, represso. Lo repressero latifondisti, feudatari, potenti laici ed ecclesiastici. Ancora dopo l’Unità d’Italia, sul finire dell’Ottocento, Abele Damiani constatava che il padrone in Sicilia tratta il contadino come uno schiavo, con ingiurie e disumanità; e costui, in cambio, restituisce pan per focaccia, quando può, con la sua sorda e occulta resistenza passiva. Quando, in certi brevi periodi, ultimo dei quali quello attuale che iniziò al termine della seconda guerra mondiale, la coercizione venne meno, il morbo, la conflittualità riprese vigore e si scatenò. E questo avvenne e avviene a ogni livello e in ogni settore, in alto e in basso.

     

    Francesco Caracciolo

    Per avere esaurienti ragguagli sull'argomento si suggerisce quanto segue:

    - Francesco Caracciolo, L'integrazione dell'«arcipelago migratorio» in Occidente, pp. 168.
    pubblicato da "La Feltrinelli"
    pubblicato da "Il mio libro"

    - Francesco Caracciolo, Come muore una civiltà e come sta morendo la nostra, pp. 408.
    pubblicato da "La Feltrinelli"
    pubblicato da "Il mio libro"

    - Francesco Caracciolo, Onorata società e società onorata, pp. 608.
    pubblicato da "Il mio libro"

    - Francesco Caracciolo, Mali estremi, pp. 176.
    pubblicato da "La Feltrinelli"
    pubblicato da "Il mio libro"

    - Francesco Caracciolo, La folle corsa, pp. 304.
    pubblicato da "La Feltrinelli"
    pubblicato da "Il mio libro"


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